Fantasmi di Expo

Testo di Wu Ming 2
Fotografie di Exposed Project



Exposed Project è una piattaforma aperta di ricerca che utilizza la fotografia, i media visuali e le pratiche artistiche per investigare Milano e la sua trasformazione in occasione dell'Esposizione Universale del 2015.
Dal 2011 ad oggi fotografi, artisti, videomakers e ricercatori hanno formato un network, creato una piattaforma di ricerca e costruito un archivio di immagini e di riflessioni sulla trasformazione urbana.
Hanno soprattutto attivato, attraverso la pratica dell'auto-committenza, un confronto continuo per proporre un punto di vista nuovo su Milano.
Exposed è stato attivo fino alla chiusura di Expo.

Alle 8 del mattino del 1° novembre 2015, l'indomani della chiusura ufficiale di Expo 2015, un piccolo gruppo di persone si è incontrato in Piazza del Duomo a Milano per fare insieme una lunga passeggiata urbana, fino alle porte di EXPO.
L'invito, l'idea, veniva da Wu Ming 2, che usa il cammino come strumento per leggere e raccontare il territorio.
Exposed ha deciso di partecipare "immaginando" il percorso.
Quelle immagini accompagnano il testo che vi presentiamo e che sarà pubblicato nella sua forma completa come epilogo di "Sentiero Luminoso" di Wu Ming 2, un diario di viaggio a piedi da Bologna a Milano, in uscita per Ediciclo.

Buona lettura.

 

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Fantasmi di Expo
Wu Ming 2

Sono tornato a Milano sabato 31 ottobre, mentre il presidente della Repubblica parlava da un podio marchiato Expo, in un intruglio di orgoglio nazionale e appartenenza aziendale, team building e patriottismo.
La mattina dopo, alle otto, in pieno deserto domenicale, siamo partiti in una dozzina dal monumento a Vittorio Emanuele, in piazza Duomo. Destinazione: l'expo-cancello di Cascina Merlata.
In soli ventidue chilometri, andata e ritorno, ci siamo trovati a camminare in una molteplicittà, una metropoli di anime sovrapposte e luoghi contesi, ghetti e varchi d'accesso.
Abbiamo incontrato la Milano da fiera, sempre in cerca di uno spazio dove mettersi in mostra, vendersi e comprare. Colpisce l'appetito degli ultimi tempi, la frenesia delle metamorfosi.
L'Esposizione universale del 1906 si tenne in due Piazze d'armi, la Vecchia e la Nuova. La prima, dietro il Castello sforzesco, lasciò in eredità un grande parco e la palazzina liberty dell'Acquario. La seconda, oltre i binari e lo scalo ferroviario Sempione, accolse nel '23 la Fiera campionaria e continuò ad ospitarla, con formule diverse, per molti decenni. Nel '97, il sindaco Albertini inaugurò con gran pompa quattro nuovi padiglioni, costruiti in un'area adiacente, il Portello, dove sorgevano gli sterminati stabilimenti Alfa Romeo. Passa un decennio e tutte le strutture della vecchia Fiera vengono cancellate e ridisegnate, per lasciare spazio a condomini e grattacieli di un nuovo quartiere dal nome fichissimo: CityLife. Il polo fieristico appena rinnovato rimane monco e l'ingordigia trasloca tra Rho e Pero, nei complessi progettati da superFuksas. Infine, arriva la candidatura per l'Expo 2015, e nessun'area della città sembra essere all'altezza dei suoi padiglioni. Bisogna inghiottire nuovi campi, stendere piattaforme di calcestruzzo, prosciugare un laghetto pieno di carpe, scodellare spaghetti d'asfalto.


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La fiera si sposta lontano dal centro, ma accanto alla vecchia sede partono lo stesso i lavori del tunnel Gattamelata, una galleria lunga poco meno di un chilometro, scavata per alleggerire il traffico della zona e teletrasportare i visitatori a un passo dai padiglioni. Un progetto ormai metafisico, dopo anni di blocchi, rimandi, bonifiche, costi aggiuntivi e una spesa finale doppia di quella prevista (115 milioni di euro). Sui giornali ho letto che il passaggio doveva aprire a fine settembre, ma ci facciamo tappa un mese più tardi e non si vede spuntare nemmeno un motorino. Meglio così: l'uscita del traforo dà su una piccola rotonda, in un angolo cieco del quartiere, con panchine che guardano il nulla e aiuole pettinate. Se da sotto terra dovesse sbucare un fiume di auto, non ci sarebbero argini per contenerlo.


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Abbiamo conosciuto la Milano delle colline, due alture artificiali nel mezzo di una città piatta.
Il Monte Stella lo abbiamo scalato di slancio, entusiasti dei suoi sentieri, mentre lo ziqqurat del parco del Portello non è riuscito a sedurci.
La cima del Monte si eleva di cinquanta metri sopra la piana, ma come i colli di Bologna basta per sentirsi fuori dai palazzi, padroni di una prospettiva nuova, con gli alberi attorno e il sedere appoggiato sull'erba. Si vedono le guglie del Duomo, i grattacieli di Porta Garibaldi, un accenno di vette alpine, la campagna verso sud e con grande sorpresa anche l'Appennino, ben più prossimo di quanto immaginassi. Piero Bottoni, l'architetto che progettò il quartiere nel Dopoguerra, al posto della "Montagnetta" aveva immaginato di sistemare un lago, che già esisteva, al servizio di una cava. Lo specchio d'acqua, però, venne eletto a discarica di macerie, metri cubi di mattoni e calcinacci da bombardamento. Bottoni non si scoraggiò, "giacché sogno e poesia muovono, malgrado tutto, il mondo". Decise allora di conciliare la necessità di smaltire le rovine con l'idea di garantire agli abitanti del rione, in gran parte sfollati da case distrutte, una vasta zona di quiete e riposo. Nacque così questo parco-montagna, una costruzione che stupisce per il suo profilo naturale, a tratti selvatico, coperto da spicchi di bosco e attraversato da ciclisti amanti dello sterrato.
Tutto il contrario dell'altra collina: liscia, geometrica, non uno stelo fuori posto. Il sentiero di ghiaia che la percorre a spirale è protetto da una balaustra di ferro e sembra pensato con l'unico scopo di inscatolare un chilometro di pista da jogging dentro una circonferenza di cento metri di diametro. Unici utenti del saliscendi, corridori in tuta e cani al guinzaglio. Più che uno spazio verde, sembra una palestra all'aria aperta. Quattro ettari di prato al contagocce, forse per profumare con la parola "giardino" uno dei più intensi progetti di trasformazione urbana che Milano abbia conosciuto negli ultimi vent'anni: la totale rimozione di un pilastro della sua storia operaia, lo stabilimento Alfa Romeo, sciolto nell'acido come un cadavere ingombrante, del quale non restano nemmeno le unghie. Gabriele Salvatores ci girò il suo Nirvana, a metà degli anni Novanta. Le foto clandestine di chi entrava nei capannoni durante i lavori di disinfestazione e smantellamento, mostrano sale ancora piene di macchinari, pezzi meccanici, prototipi di vetture, disegni di fari e cruscotti, sedili, quadri elettrici. Un patrimonio sepolto chissà dove, ma senza le bombe a giustificare il disastro.


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Ci siamo aggirati per la Milano rendering, dove l'architettura sembra la copia reale e senza vita degli scenari urbani da computer grafica. In piazza Gino Valle, sempre al Portello, il pedone non si sente un essere umano in carne ed ossa, ma un manichino di pixel animato in 3D. E' la piazza più grande di tutta la città e per attraversarla nei mesi estivi, a quanto mi dicono, sarebbe davvero meglio non avere un corpo, perché la spianata si arroventa come un deserto di roccia e la griglia grigiobianca della pavimentazione, invece di richiamare meridiani e paralleli, ricorda piuttosto la graticola di un barbeque.
Certo era difficile inventarsi uno spazio pubblico in questa posizione, chiusa tra due vialoni ortogonali, l'uscita del tunnel Gattamelata e il frontone di Fieramilanocity, tempio cittadino del presente invecchiato. Il risultato è più simile a un enorme cortile di rappresentanza che alla piazza di un nuovo quartiere. I tre palazzi che si affacciano sullo slargo sono trapezi a strisce di vetro e pannelli, marchiati con i nomi di assicurazioni, di apparecchi elettronici e le onde rossonere di Casa Milan. Al centro, un baldacchino faraonico, zebrato, sembra il tavolo da picnic di un popolo di giganti. Invece, serve solo a riparare gli ascensori del parcheggio sotterraneo; altrimenti, per chi sbuca dalle viscere della terra, l'impatto col vuoto sarebbe disorientante, per non parlare di quello col sole di luglio e la nebbia d'autunno. Lo scrittore e architetto Gianni Biondillo ha notato che la "piazza" - tra virgolette - nasconde un'involontaria metafora freudiana: "Fingiamo di pedonalizzare, ma il represso, il sommerso, la pancia di questo luogo brulica di automobili."


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In effetti, l'area è tutta ciclopedonale, ma al passante non offre nulla, salvo un test gratuito di agorafobia.
Le panchine di pietra si sforzano di evocare la piazza che non c'è, come le camere intatte dei figli riempiono in loro assenza le case dei genitori. Un'edicola, una bancarella, un'officina per bici: qualunque brandello di realtà sembrerebbe pattume, in mezzo a questo lindore geometrile. Non resta che sperare in una nevicata abbondante, di quelle che cancellano spigoli e linee: allora l'invaso, col suo digradare, diventerebbe un'ottima pista per bob.
Tra il santuario del Milan e il partenone della fiera spodestata, spuntano di lontano i duecentosette metri della torre Isozaki, l'edificio più alto d'Italia, dalla base al tetto. In realtà le torri dovevano già essere tre: il Dritto, lo Storto e il Curvo, ma sono state fermate, ripensate, bocciate e infine solo rimandate. Una è già in piedi, una in costruzione, la terza - dicono - sarà pronta nel 2018.
Ai piedi delle tre opere, come "regalo alla città", doveva sorgere anche il nuovo Museo d'Arte Contemporanea, ma non è detto che si faccia. L'intero cantiere ha ottenuto una proroga fino al 2023, il doppio degli otto anni previsti. Chi ha comprato una casa per viverci, dovrà invecchiare in mezzo alle ruspe.


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Abbiamo camminato anche lì, nel cuore di CityLife, e almeno in quel rendering l'effetto simulacro è mitigato dagli alberi del parco, piantati di fresco. L'erba, invece, ha un aspetto incalpestabile. Lo spazio è pubblico, ma vuoi per la muraglia dei palazzi, molto più alti di quelli intorno, vuoi per il cancellino dal quale si entra, pare di aggirarsi in un lussuoso giardino condominiale, al punto che ci stupiamo di poterlo visitare. Un minuscolo campo da golf, buono giusto per allenarsi con quattro buche, ribadisce l'atmosfera da club esclusivo. E' ricavato nella fossa che doveva ospitare le fondamenta di un gruppo di residenze, firmate dall'archistar Daniel Libeskind, e già congelate in vista di tempi migliori. Tempi nei quali si torni a spendere, in media, ottomila e cinquecento euro al metro quadro per un casa di lusso in centro a Milano. Prima di allora, meglio fermarsi e giocare a golf.
Nei primi tre anni di esercizio, CityLife ha scavato un buco di bilancio da cinquantuno milioni di euro. In un articolo del Corriere, leggo che nel 2014 ci sono chiuse soltanto sette transazioni. I giornali più recenti parlano di 340 case vendute o in affitto su 540 già disponibili, metà di quelle previste dal progetto iniziale. Numeri veri o gonfiati? Passeggiando sotto le gigantesche volumetrie, si scorgono soffitti senza lampadari, terrazzi principeschi animati quanto un sarcofago e un paio di appartamenti abitati, al piano terra: - Quelli sono per le visite dei potenziali acquirenti - commenta una voce alle mie spalle.
Impressiona la mole degli edifici, mazzi di condomini da tredici piani, disegnati apposta per ferire il quartiere d'intorno. Un'architettura pensata solo per farsi notare, visibilità ad ogni costo, come un prigioniero che si taglia la faccia pur di attirare l'attenzione dei carcerieri. Le residenze Hadid hanno le forme di transatlantici da crociera e a guardarli da lontano, negli scorci delle vie che portano fin qui, pare di vedere le foto delle Grandi Navi contro le quali si battono i cittadini veneziani. Un'associazione di abitanti della zona, "Vivi e progetta un'altra Milano", ha cercato di sollevare dubbi, critiche, proposte di modifica al progetto CityLife. Qualche modifica l'hanno strappata, ma per le questioni più spinose si sono rivolti al Tar. Hanno ottenuto una sentenza del Consiglio di Stato, nella quale si dice che dovranno pagare 21mila euro di risarcimenti, perché si sono rivolti alla giustizia amministrativa senza averne un interesse legittimo. Abitare una città non dà diritto a chiedere conto di come la si progetta.


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Abbiamo scoperto la Milano a perdere, un vuoto che non è mai vuoto, dove incontri più vita che in una qualsiasi piazza Gino Valle.
Il grande vivaio "Al Seminatore" sorge in un'area demaniale, in viale Eginardo, ma nelle serre dove crescevano piante e fiori, ora dormono almeno una trentina di persone. Poco più avanti, di fronte alla sede del Sole 24 ore, compare l'insegna del Ristorante Derby, il più famoso club del cabaret milanese. Il locale ha chiuso i battenti nell'85, si dice per la concorrenza dei comici televisivi, anche se quelli esistevano da molto prima. Dopo sedici anni senza risate, il Coordinamento dei Collettivi Studenteschi di Milano e Provincia ha occupato la palazzina liberty, pochi mesi prima del G8 di Genova del luglio 2001. Oggi, nel centro sociale Cantiere, ci sono una libreria, aperta sei giorni su sette, una taverna che cucina pranzi e cene, un giardino con veranda invernale e due sale per concerti e iniziative. Tutt'altro genere di attività si svolge al mercato rionale del QT8, ai piedi del Monte Stella. Qui i residenti segnalano combattimenti tra cani, ciotole e catene in mezzo ai materassi dei senza tetto. Il QT8, nel Dopoguerra, era un progetto innovativo, sperimentale. Un quartiere-villaggio per diciottomila abitanti che cercava di tenere insieme giardini, condomini popolari, casette prefabbricate, blocchi da undici piani e palazzi da quattro, luoghi di aggregazione, scuole, una chiesa. Alla scarsa diffusione di negozi, sopperiva il mercato, come punto d'incontro e di passaggio. Senza quello, il rione progettato da Bottoni è come una casa senza dispensa, e per fare la spesa tocca prendere l'auto.


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In fondo a via Carlo Salerio costeggiamo la barriera di cantiere più vecchia di Milano. A quanto mi dicono, resiste dagli anni Ottanta. Dietro, in una valletta ombrosa, crescono cespugli e alberi fitti. Sul terreno aveva messo le mani il solito Ligresti, gran visir del calcestruzzo milanese, ma un gruppo di attivisti è riuscito a dimostrare che la percentuale di piante per metro quadro era sufficiente per dichiarare il luogo "fascia boscata" e come tale preservarlo da un destino edilizio.
Al Gallaratese passiamo in mezzo a uno strano parcheggio, spalmato nell'erba di un giardino pubblico. E' quel che resta di un grande capannone, che per anni fu la chiesa di Sant'Ilario, parrocchia provvisoria sorta durante l'edificazione del quartiere. Trasferiti santi e fedeli nella sede definitiva, la struttura fu lasciata a sé stessa. Per qualche tempo, provarono a renderla utile i ragazzi del Cantierotto (8 è il numero di questa zona della città). Costretti a barcamenarsi senz'acqua, luce e gas, alla fine li cacciarono con la scusa dell'amianto. Allora gli occupanti proposero al Comune un progetto di bonifica, puntando all'apertura di un circolo Arci. Per tutta risposta l'area venne messa sotto sequestro. Poi, come brillante mossa anti-degrado, il sindaco Moratti e l'assessore Ombretta Colli annunciarono la nascita di una scuola di musical, destinata a rivitalizzare tutta la zona. Basta una ricerca sui giornali dell'epoca per ritrovare i toni roboanti delle presentazioni alla cittadinanza, ma la scuola non si fece mai, e il capannone venne smantellato qualche estate più tardi.
Senz'acqua, da vent'anni, resiste l'autogestione di Cascina Torchiera, un edificio rurale del Trecento. Ridotto a rudere fatiscente, è stato restaurato con ore e ore di lavoro, in totale autofinanziamento. Il comune, invece di ringraziare, ha murato il tubo d'ingresso dell'acqua alla cascina, ma gli occupanti non si sono spaventati, fanno rifornimento come possono, e continuano a proporre teatro, scuola per stranieri, un mercato contadino, presentazioni di libri e una tre giorni di giocolieri, circo e saltimbanchi tra le più apprezzate d'Italia.
Abbiamo visitato la cascina sulla via del ritorno, usciti dal Cimitero maggiore. Ci ha aperto il portone l'unico abitante rimasto, in questa domenica d'autunno.
- Gli altri sono andati a un rave per Halloween - ci ha spiegato.
Alla faccia della mancanza d'acqua, abbiamo riempito le borracce e riposato le gambe tra i tavoli e le sculture ammucchiati nel vecchio cortile.
Qualcuno fa confronti con l'ultima volta che è stato qui, nota che muri e tegole avrebbero bisogno di una sistemata. Io guardo le piante che crescono ribelli, gli attrezzi in disordine e mi godo il profumo di possibilità che sempre promana dall'incompiutezza.
Alla fine, gli unici spazi abbandonati che abbiamo incrociato, a centinaia, sono quelli che non siamo riusciti a vedere, perché nascosti dietro scuri e tapparelle. Gli ottantamila alloggi vuoti della città, almeno metà dei quali non sono nemmeno sul mercato. A questi si aggiungono quasi diecimila appartamenti sfitti di proprietà pubblica. Per contro, ci sono 23mila famiglie in graduatoria per l'assegnazione di una casa popolare e 14mila sfratti esecutivi con richiesta d'intervento delle forze dell'ordine.


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Abbiamo calpestato la Milano fascista, quella della Legione Ettore Muti, banda di "criminali puri e saccheggiatori professionali", come li definì Ferruccio Parri. Il loro capoccia, Francesco Colombo, secondo la stessa Questura repubblichina era un "uomo capace di assoldare sicari per sopprimere chiunque lo ostacoli nel compimento dei suoi loschi ed inconfessabili fini".
La formazione, che aveva compiti di polizia politica, fu protagonista di rastrellamenti, rappresaglie, fucilazioni sommarie, torture e strampalati tentativi di "redimere" i nemici più malleabili, inquadrandoli in uno speciale battaglione. Proprio all'inizio del cammino, sfiliamo di fronte alla caserma del comando, che dopo la guerra diventò, per esplicito esorcismo, la sede del Piccolo Teatro. La "Ettore Muti", nel gioco delle parti interno al regime, fu anche al centro di scontri e vendette, tra i borghesi neri e gli squadristi di strada, fieri di essere considerati "balordi" dai signori in doppiopetto. C'erano poi le rivalità e le alleanze tra ghenghe rivali, Guardia Nazionale contro Brigate Nere contro Decima Mas contro arditi della Muti contro Banda Koch. Una guerra intestina per il controllo del potere e del territorio che caratterizzò il fascismo milanese fin dalle origini.
Il 12 aprile 1928, il re è a Milano per inaugurare una Fiera straordinaria, in occasione del decennale della vittoria nella Prima guerra mondiale. La folla lo attende in Piazza Giulio Cesare, intorno alla nuova fontana di Renzo Gerla, quando scoppia una bomba a tempo, nascosta nel basamento di ghisa di un lampione. L'esplosione di schegge uccide sul colpo sedici persone, più altre quattro che muoiono in ospedale nei giorni successivi. Tra le piste d'indagine, una sembra coinvolgere il federale Mario Giampaoli. La mattina dopo, in uno strano incidente, un legionario della Milizia ne uccide altri due, d'infilata, con un colpo partito dal suo moschetto mentre si allacciava il cinturone. Nonostante i primi sospetti, le indicazioni di Mussolini spingono la polizia ad arrestare "le bestie dell'antifascismo impotente e barbaro". La strage resta così senza colpevoli.


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Dalla fontana delle Quattro stagioni - restaurata con ampi strombazzamenti a cura di CityLife - ci siamo diretti a villa Fossati, una dimora signorile, silenziosa e appartata, che la banda Koch trasformò in villa Triste, seviziando in poco più di due mesi circa un centinaio di persone. Si dice che i supplizi fossero talmente crudeli che i gerarchi decisero di fermare il massacro. Di sicuro lo usarono per liberarsi di un uomo scomodo, potente e troppo autonomo. Non a caso, a circondare la villa e ad arrestare gli sgherri furono quelli della Muti, che con le sevizie avevano altrettanta dimestichezza.
Koch finì dietro le sbarre il 17 dicembre 1944. Un anno prima, il giorno di San Silvestro, quattro partigiani venivano fucilati al poligono della Cagnola, in piazzale Accursio. Oggi gli spari echeggiano ancora, ma la vecchia struttura cade in pezzi, e l'ingresso monumentale, con la scritta "Tiro a segno Nazionale", giace sprangato in mezzo alle piante, dietro un paravento di alberi e rovi, come un rifiuto spiaggiato dalla corrente del traffico.
Ci siamo arrivati dal cimitero Maggiore, passando di fronte alla lapide che le maestranze della Sertum, storica ditta di motocicli, hanno dedicato a tre compagni sappisti, morti nei campi di sterminio di Gusen e Mauthausen.


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Al camposanto, tra tombe di famiglia e steppe malandate, abbiamo attraversato il Campo Dieci, dove sono sepolti i "caduti della RSI 1943 - 1945". Quattro pini d'Aleppo infondono alla spianata una strana atmosfera balneare. Drappi tricolori e bandiere con l'aquila nera imbellettano mille croci di pietra grigia, schierate sull'attenti, pronte per le celebrazioni del giorno dei morti. Una coppia di anziani si aggira tra le tombe, una donna legge le iscrizioni dove si blatera di eroi, gioventù che non ha tradito, sacrificio per la Patria. Un foglio plastificato, appeso al tronco di un albero, sostiene che questi militari e civili, uomini e donne, furono assassinati, quasi tutti dopo la fine delle ostilità, per il solo fatto di avere difeso l'Onore d'Italia. Povere vittime, senza colpa. Trattengo una risata solo per rispetto dei vivi. Questa signora con la scialle, in piedi davanti a un sepolcro, per quanto ne so potrebbe essere la nipotina di un caduto, che viene qui a ricordare il nonno, e magari non c'entra nulla con il luogo ridicolo dove l'hanno voluto interrare. Dall'espressione contrita non mi pare che sia fiera, anzi, ho come l'impressione che si vergogni, e se potesse, saluterebbe volentieri il caro estinto in un campo più onesto e più discreto.


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Ci domandiamo in base a quale criterio proprio questi cadaveri siano finiti qui. Una decisione delle famiglie? Una ragione territoriale? I "caduti della RSI" sono di certo molti di più. La signora orecchia le nostre parole, si volta, e sottovoce ci spiega che questi sono "quelli uccisi dai partigiani, mentre in un'altra zona ci sono i partigiani uccisi". L'informazione, per quanto semplice, non ci chiarisce le idee: diverse croci portano la scritta "Ignoto", senza nemmeno l'indicazione di una data di morte. Eppure, a fronte di tanta incertezza, è sicuro che costoro furono ammazzati dai partigiani. Di certo non lo fu Vincenzo Costa, morto nel '74, e qui tumulato per sua volontà, in quanto promotore di questo raduno funebre, iniziato negli anni Sessanta.
Tra tutti i simboli frusti che ci aspettavamo di trovare, l'unico che ci sorprende, in bella vista, è una corona d'alloro, con la fascia biancorossa e la scritta "Comune di Milano". Non male per un posto che riunisce criminali come Francesco Colombo, Armando Tela della Banda Koch, Alessandro Pavolini, oltre a 9 volontari italiani delle SS, 116 legionari della Muti, 40 militi della X MAS e 159 Brigate Nere.
Ma forse siamo noi, che sbagliamo a stupirci, e non c'è da aspettarsi nulla di diverso, al tempo delle istituzioni formato azienda: Expo e Coop sponsorizzano la pastasciutta antifascista di Casa Cervi, il Comune di Milano risponde con il Campo Dieci di Musocco. L'importante è che il marchio sia visibile.

E finalmente, abbiamo visto la Milano di Expo, anche se a dir la verità, ce la siamo sorbita fin dai primi passi, a partire dall'Expo Gate, piazzato di fronte all'ingresso del Castello Sforzesco. I miei amici milanesi non lo amano affatto e mi dicono che in città c'è già chi lo chiama lo stendipanni, per via dell'intrico di tubi bianchi che sale verso il cielo e ispira sfide di arrampicata urbana. A me la struttura non dispiace affatto e riempirla di magliette fresche di bucato è un'idea che non scarterei troppo in fretta. Il paesaggio di una metropoli si presta anche ad essere contraddetto e certi strani accostamenti possono produrre nuovi significati. A patto che non si tratti di un'imposizione, di un testo che non si può modificare, né prima né dopo. I sostenitori della provocazione citano sempre la Tour Eiffel, che Maupassant considerava un'ignobile "carcassa metallica". I parigini volevano rimuoverla, poi col tempo le si affezionarono e oggi la consideriamo un simbolo irrinunciabile della Ville Lumière. Tuttavia, non si può chiedere ai contemporanei di giudicare un'opera sulla base del suo apprezzamento futuro. Se così fosse, dovremmo accettare di radere al suolo un intero quartiere, con la gente dentro le case, in cambio della garanzia che al posto delle macerie si costruirà un palazzo grandioso, un'opera che i posteri ricorderanno per millenni, mentre dei poveracci schiacciati sotto le rovine, ci si dimenticherà nel giro di un secolo.


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Ma la Milano dell'Expo, nel senso del sito vero e proprio, quello col Cardo e il Decumano e l'Albero della Vita, l'abbiamo soltanto intravista di lontano, perché l'ingresso era chiuso e la passerella per scavalcare l'autostrada, presidiata da un viavai di vigilanti. A nulla è servito fingerci visitatori entusiasti, convinti di essere arrivati puntuali per la festa finale, dopo un viaggio lungo e faticoso.
- Ma come ieri? Non scherzate. Sul giornale ci stava scritto primo novembre... E adesso? Che facciamo? Che gli racconto, a zia Angelina?
La nostra finta disperazione non ha commosso nessuno. Siamo rimasti fuori a contemplare le baracche vuote e gli stand sbrindellati, incerti se avventarci su scatoloni di souvenir e paccottiglia incustodita. Una casa isolata, stretta nelle spire di strade, transenne e cantieri ci ha regalato la classica immagine di resistenza al disastro. Gli enormi parcheggi vuoti ci hanno suggerito visioni e utopie, come quella di trasformarli in sterminate piste di pattinaggio, basta un velo d'acqua e la giusta temperatura, ma ci siamo detti che subito diventerebbero un fiore all'occhiello, le più grandi d'Europa, un bellissimo esempio di riutilizzo ed energia per la vita. Meglio usarli come arena per il sacrificio del mattone, quello che ho portato in spalla per tutto il percorso. Lo estraggo dallo zaino, lo appoggio sull'asfalto e ci mettiamo in cerchio tutt'intorno.
- Dal cemento inutile - salmodio in tono grave.
- Liberiamoci insieme - risponde l'assemblea.
- Dalle tangenziali esterne - riprendo.
- Liberiamoci insieme.
- Dalla Via d'Acqua.
- Liberiamoci insieme!
- Anzi, no - corregge uno - Ci siamo liberati!
Infatti, lungo il percorso che ci ha portato qui, ci siamo fermati sulle panchine del Parco Pertini, al quartiere Gallaratese. Uno spazio dimenticato, un interstizio tra i palazzi che gli abitanti del rione sono riusciti, ancora negli anni Ottanta, a preservare e curare, fino ad ottenere che il Comune lo riconoscesse come giardino pubblico.
- Dalle barriere psicoarchitettoniche.
- Liberiamoci insieme.
Proprio su quei prati, doveva passare un canale largo dieci metri, che nei suoi venti chilometri di lunghezza avrebbe sventrato altri due parchi della cintura ovest milanese. Quel canale era l'ultimo rimasuglio salvafaccia di un progetto molto più ambizioso, con il quale Milano aveva strappato a Smirne l'organizzazione di Expo 2015.
- Dalla gentrificazione.
- Liberiamoci insieme.
L'idea era quella di restituire alla città l'antico sistema di canali navigabili, dalle dighe del Panperduto, al confine col Piemonte, passando per il canale Villoresi, il Naviglio Grande, la Darsena e il Ticino. Uno scenario capace di affascinare chiunque e conquistare consensi, ma costi, orografia e tempi stretti lo hanno soffocato in culla, costringendo i sostenitori di Expo a fingere che il bimbo fosse ancora in salute, vivo e vegeto, e poi a sostituirlo con una controfigura, cioè un canale non navigabile, inutile, buono solo per alimentare i giochi d'acqua del sito espositivo, refrigerare i padiglioni e dar vita a un laghetto artificiale, soprannominato Lake Arena.
- Dalle piste inciclabili
- Liberiamoci insieme.


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Il 25 febbraio 2014, dopo quasi due anni di proteste, assemblee, presidi, fiaccolate, pic nic, blocchi di ruspe, smontaggi di transenne e false trattative, il commissario Sala sospende i lavori per il canale e annuncia che presenterà un nuovo progetto. Due giorni dopo, in un editoriale dal titolo "Ritirata senza gloria", il Corriere della Sera scrive che "non si cala dall'alto un progetto invasivo che modifica terreni e paesaggi senza valutarne l'impatto con i diretti interessati, cioè i cittadini. Tanto più che non stiamo parlando di un'opera di pubblica necessità, ma di un canalone di cemento dal valore scenografico per l'Expo". Peccato che lo stesso giornale, fino al giorno prima, non avesse dedicato una sola parola critica al canalone - in nome dell'expottimismo - mentre a contestarlo erano i soliti, terribili attivisti No Expo, con l'appoggio di quei rompiballe di Italia Nostra. "Il cortocircuito è arrivato con l'imbarbarimento della protesta, - scrive ancora il Corriere - l'arrivo dei picchetti, i vandalismi e i sabotaggi: il canale di Expo rischiava di diventare un'altra val di Susa, con i poliziotti a far la scorta al cantiere." Sta di fatto che senza quell'imbarbarimento, e contando solo sulle inflessibili accuse dei giornali, la Via d'Acqua inutile sarebbe realtà.
- Dai fantasmi di Expo
- Liberiamoci insieme.
Avanzo verso il mattone, lo sollevo sopra la testa e lo sbatto per terra, spaccando il laterizio in mille schegge. Ne intasco una come ricordo della giornata.
Quel che mi resterà dell'Expo, invece, è l'immagine di cascina Merlata, vista da un parapetto in muratura, alto sopra via Gallarate.
"Cascina Merlata" è il nome di quest'accesso al sito, il più comodo dalla città, ed è anche il nome di un complesso di edifici del 1600. Una dimora agricola ornata di merlatura, con i corpi di fabbrica disposti in forma di U. Al centro l'abitazione, con il portico e i ballatoi, e ai due lati stalle e fienili.


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La cascina era abitata fino a non molto tempo fa, ma nelle foto che ho visto era già in abbandono e immagino non fosse facile restaurarla. Il risultato è che le due costruzioni laterali sono state abbattute e rifatte in acciaio corten, quello che sembra arrugginito, mentre la grande fattoria di mezzo ha assunto le sembianze di un autogrill.
Non voglio concludere trasformando tutto in una questione visiva: spero di aver mostrato che diritto al paesaggio significa riappropriarsi di un alfabeto complesso, senza il quale non sappiamo leggere e scrivere, e quindi ci facciamo fregare, come accade agli illetterati.
Non voglio giudicare soltanto con gli occhi, ma andate a guardare Cascina Torchiera - che per quanto sgarrupata è riuscita a sopravvivere - e confrontatela con Cascina Merlata - che non conserva più nulla della sua storia rurale.
Due edifici, due strade, due diversi modi di stare sul territorio, di trasformarlo e di capirlo.
Chi ama la viandanza ha già scelto in che direzione camminare.

 


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Lo stesso giorno, a camminare con noi c'era Umebrto Torricelli, illustratore milanese. Ci piace linkarvi il suo racconto della passeggiata, perchè restituisce una visione ulteriore e speciale di quello che attraversavamo, guardavamo e pensavamo.
Le sue tavole sono pubblicate su Graphic News, portale nativo digitale di informazione fumetti.
Correte a sfogliarle.